La bellezza non è una forma piena, ma un vuoto che ci chiama a riempirlo con ciò che siamo. È assenza di gravità. Un’assenza generatrice di possibilità, in cui i bordi rimangono come tracce, come linee che solo lo sguardo interiore può decifrare. Non è mai univoca, mai del tutto comprensibile: vive nei contrasti, nei silenzi, nell’incompiuto.
Percepire la bellezza significa accettare che essa non si dia mai tutta, ma solo in frammenti. È un abbecedario evolutivo, un linguaggio che si impara vivendo, sbagliando, ascoltando ciò che non ha nome. Ogni volta che la nominiamo, la limitiamo; ogni volta che la osserviamo senza pretese, ci rivela qualcosa di nuovo.
La bellezza è il dato che si fa domanda, la certezza che si dissolve nell’ignoto. È il gioco dell’essere e del non sapere, antico come la luce, semplice come un “Le. Il.” sospeso, incompleto, lasciato lì a brillare tra parola e silenzio.
Chi sa percepirla, conosce l’inconoscibile.
